Arriviamo in Kenya non per la solita vacanza: albergo sulla spiaggia, campi da golf, nuotate in piscina, casinò, tennis e safari fotografico nei parchi. Il nostro piccolo gruppo è formato da sei persone, conosciutesi per caso o forse no, ma certamente accomunate da un autentico desiderio di portare, ognuno a suo modo, un raggio di luce e di gioia là dove operano, spesso da decenni, suore, sacerdoti e laici, per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali e dare una scolarità di base al maggior numero possibile di bambini ed adolescenti. Scopro presto che le iniziative benefiche della piccola ma efficiente associazione “Karibu“ (“Benvenuto“ in lingua keniota) sono molto più numerose di quanto pensassi. Nel momento in cui avevo cominciato a dare il mio appoggio ad uno dei loro progetti ero rimasta concentrata sulla sua realizzazione con impazienza. ”Tempi africani …” Mi ripeteva Galdino Cagnin, il presidente. “Stai tranquilla, il tuo pozzo si farà.” L’intero viaggio è una continua scoperta della volontà e dell’entusiasmo di queste persone che una volta all’anno scelgono di vivere per più di un mese percorrendo centinaia di chilometri su strade sterrate, sassose, piene di buche, devastate da torrenti in piena durante le stagioni delle piogge, per visitare in maniera capillare le missioni di un’area vastissima, dall’altopiano e dalle vallate della Rift Valley, agli enormi deserti circostanti l’immenso lago Turkana, per poi scendere lungo i fianchi del monte Kenya e ancora giù fino alle porte di Nairobi. Rinunciano alle vacanze, dopo un anno di lavoro, per fare qualcosa in cui credono. “Un altro mondo è possibile”. E’ il motto sul logo dell‘associazione “Karibu“, in cui campeggia l’acacia africana, albero maestoso dalle larghe fronde appiattite e loro, Galdino Cagnin, vivaista, Lucia Michieletto sua moglie, infermiera in un ospedale psichiatrico, Gianni Salvalaio, infermiere specializzato in oculistica nella “Banca degli Occhi” a Mestre, laureato in lingue, Alessio Bellato, studente di psicologia, lo dimostrano parlando poco e facendo molto, con grande umiltà e con gli occhi brillanti di felicità . Altri volontari, in Italia, a Scorzè, in provincia di Venezia, si adoperano tutto l’anno a gestire un negozio ”equosolidale“ e a promuovere iniziative mirate a raccogliere fondi per le missioni. Mariluccia Roccaro ed io siamo partite come simpatizzanti, ma siamo state subito coinvolte e ci siamo sentite a casa in compagnia di questi infaticabili costruttori di bene. Fanno parte della miriade di gente di buona volontà che lo fa, in silenzio, con determinazione.
Si dovrebbe parlare invece, del bene, quello da fare e che viene fatto, allargarne la conoscenza, emularlo.
L’argomento sarebbe degno della più pregiata carta patinata!
A Nairobi, ci aspetta padre Paul Maina, keniota dell‘ordine missionario della “Consolata“, per portarci alla casa madre, da dove partiamo dopo una breve sosta per la colazione, servita da un altissimo e snello cameriere. I nostri mezzi di trasporto sono un Pick-Up e una Jeep dall‘aspetto vissuto, su cui carichiamo le voluminose valige. In questa stagione non dovrebbe piovere, ma anche qui il clima è cambiato e la vegetazione è di un verde brillante dovunque si posi lo sguardo, sulle coltivazioni di ananas e caffè sui campi di mais, sugli alberi di mango carichi di frutti, sulla ricca flora spontanea. Si viaggia ad una quota attorno ai mille metri in un paesaggio ondulato con spaccati di terra rosso cupo, attraversando piccole cittadine e villaggi animati, polverosi, dove tutti si muovono con noncurante libertà, senza preoccuparsi di ostacolare il traffico. Passando per Sagana, Nyeri, Nanyuki, Nyahururu, raggiungiamo, prima che si faccia buio, Rumuruti, l’ultima tappa per rifornirci di provviste e di carburante e farci dare un‘occhiata ai motori. Proseguendo verso nord, in direzione di Maralal, d’ora in avanti non ci sarà più strada asfaltata. Il paesaggio piatto si perde nell’orizzonte, ricoperto da una savana ricca di alberi di cactus che si stagliano nel cielo infuocato del tramonto. Ci aspettano ancora tre lunghe ore di viaggio, nel buio penetrato a stento dai nostri fanali infangati, prima di raggiungere Suguta Marmar, la meta del nostro soggiorno, la parrocchia e missione di padre Paul.
Questo sacerdote di appena quarant‘anni, dagli occhi luminosi pronti ad accendersi di riconoscenza e di gioia per la nostra presenza, infaticabile organizzatore delle nostre intense giornate, sempre vigile sulla nostra sicurezza, ci trasmetterà il suo costante buonumore durante tutto il nostro soggiorno.
Il mattino seguente siamo allegri e riposati quando usciamo sul porticato del piccolo chiostro rivestito di buganvillee. L’abitazione e gli altri edifici delle missione sono bassi parallelepipedi di pietre grigie, alcuni con un porticato sul davanti, adibiti a scuola, laboratorio di cucito e maglieria, scuola di computer e dormitori. La chiesa invece è alta e spaziosa, intonacata sia all'interno che all‘esterno. Qui la vita ruota attorno all’attività scolastica. Entriamo nelle classi e siamo esterrefatti dall’atmosfera distesa e disciplinata. E’ di rigore la divisa, sempre pulita, di stile inglese: calzoncini al ginocchio per i maschi e gonna per le femmine, camicia con cravatta, pullover, perché se non c’è il sole l’aria è piuttosto fresca all'altitudine di circa 1500 mt . Le insegnanti, spesso con lucenti parrucche dai capelli lisci, indossano giacche e gonne dai colori pastello, gli insegnanti abiti grigi. Ci sorprende questa cura nell‘abbigliamento quando, il giorno seguente, visitiamo la manyatta di Logorate, tipico villaggio di capanne ricoperte di fango e sterco da cui proviene la gran parte degli alunni, a più di un’ora di cammino dalla missione di Suguta Marmar. Qui l’unica ricchezza sono le greggi prevalentemente di capre e le mandrie, custodite durante la notte nell’anello di sterpi spinose che circonda il villaggio. Questo bene prezioso, indispensabile per il latte e come merce di scambio per acquistare le giovani adolescenti per farne mogli, è spesso rubato e crea tensione e scontri tra tribù rivali.
L’etnia Samburu, abitante di questi territori montagnosi a nord est del monte Kenya, si ritiene sia imparentata con i Masai, provenienti dal Sudan, con i quali condivide la lingua e le tradizioni, come quella di adornarsi, per quanto riguarda le donne, con bellissimi collari di perline coloratissime, mantelli e tuniche sgargianti. I giovani, dopo la circoncisione, necessaria per il passaggio dall’infanzia al ruolo di moran (guerriero), devono impegnarsi in diverse prove prima di essere considerati anziani ed avere potere. Li si incontra solitari, vestiti dei loro abiti tradizionali e armati di lancia, sulla montagna, ma anche in città come Maralal. Le ragazze vengono sottoposte all’infibulazione il giorno delle nozze e non si guadagnano nessun prestigio sociale nell’arco della loro vita se non emancipandosi attraverso un lavoro o lo studio e ne sono ben coscienti, tanto più che nell’ambito famigliare viene praticata la poligamia …
Sabato 9 gennaio. Saliamo lungo una strada rocciosa e fangosa allo stesso tempo, incontrando gruppi di zebre ben nutrite, uno sciacallo, gazzelle che ci fissano curiose, stormi di uccelli dal piumaggio blu variegato e greggi di capre e mandrie di bovini. Il paesaggio ondulato è coperto da coltivazioni di mais, il frumento è stato tagliato e tutta la natura è ancora fresca di pioggia.
Arriviamo all’arco in pietra della Malasso Community a circa 2500 mt e oltrepassandolo ci affacciamo su una vista mozza fiato della Rift Valley. E’ sola una minima parte della fossa tettonica afro-araba, lunga 6000 km che dal Mar Morto raggiunge il Mozambico. In Kenya passa attraverso il grande lago Turkana, le Cheranga Hills e numerosi laghi in mezzo a picchi e crateri vulcanici, alcuni ancora attivi che danno vita a numerose sorgenti di acqua calda. Proseguiamo verso Lolkunono e troviamo un paesino di poche case, poco più di baracche, quasi deserto. Minaccia sempre di piovere; nuvolosi scuri ci sovrastano. Raggiungiamo l’inizio della discesa verso una valletta con una piccola chiesa sul fondo ed è allora che ci vedono arrivare.
Ci giungono le voci di un coro.
Padre Paul ci mostra dov’è il pozzo con la pompa infiocchettata, recintato con il filo spinato. “La falda è ricchissima d’acqua, pura e dolce.“ Ci dice con un sorriso raggiante.
Vengo a sapere che i lavori sono terminati durante la notte prima del nostro arrivo e arguisco che la mia venuta abbia notevolmente contratto i proverbiali tempi africani.
Tutti ci accolgono festosi e il mio nome serpeggia insistente finché non riescono ad individuarmi.
Le donne nei loro splendidi costumi mi circondano, le più disinvolte mi toccano, mi stringono la mano. Una donna vuole farmi conoscere il nipote e la figlia e con il pollice in alto mi dice: “Michela super!“ Ora vi spiego perché. Fino ad oggi l’acqua necessaria per bere e cucinare le donne hanno dovuto andare ad attingerla ad una pozza fangosa a 6 ore di cammino e trasportarla in pesanti taniche di plastica fino al villaggio. La gratitudine è talmente sproporzionata al mio impegno che mi sento confusa e profondamente commossa. La festa prosegue secondo una scaletta rigorosamente guidata dal cerimoniere. In corteo, danzando e cantando, ci rechiamo alla inaugurazione del pozzo. Taglio il nastro tra gli applausi. Aiutata dal consigliere e da un anziano comincio ad azionare la pompa. In breve l ‘acqua limpida e abbondante sgorga tra grida di gioia. La voglio bere dalle mani. E’ veramente dolce e fresca!
Piantiamo anche delle piantine in ricordo dell‘evento.
Tutto fluisce armoniosamente: i canti a più voci, le danze, gli interventi dell‘autorevole rappresentante del governo, dell’orgoglioso consigliere del villaggio, entrambi in giacca e pantaloni di foggia europea, dei più importanti rappresentanti del villaggio dai lobi delle orecchie deformati da ampi fori, nonché dei nostri. Sotto la tenda di fianco alla chiesa, da enormi catini, viene scodellato un abbondante pranzo, consistente in riso, carne di capra, legumi e patate, in piatti comuni dai quali attingiamo tutti rigorosamente con le mani. Dopo che ci vengono consegnati i certificati di apprezzamento per il nostro contributo, inattesi, a sorpresa, compaiono i morani. I giovani guerrieri, solitamente schivi, ci coinvolgono ne le loro danze cantando e cimentandosi a gara in altissimi balzi. Siamo tutti colmi di emozioni.
Un sottile legame del cuore si è insinuato dolcemente tra noi della “Karibu“, padre Maina e questa gente che ci accolti con tanto calore ed amore.
Facciamo appena in tempo a partire e tutta la pioggia che una mano provvidenziale ci ha risparmiato per l‘intera la durata di questo favoloso incontro si riversa su di noi a scrosci violenti.
La savana montagnosa si allaga in brevissimo tempo, la strada sterrata si trasforma in un torrente fiancheggiato da fossati colmi d’acqua impetuosa che divora il terreno argilloso lasciando profondi solchi.
E’ tempo di tornare in Italia. Ci concediamo una sosta a Nanyuky, la città piu alta di questo stato con i suoi 2135 mt, esattamente sull‘Equatore, come testimonia la storica targa del prestigioso Mount Kenya Safari Club, uno dei resort più prestigiosi del paese, per ammirare la splendida vista sul monte Kenya. Il sentimento del ritorno si vela di nostalgia. Tornerò….
Michela Fassa